L’abbazia toscana di Sant’Antimo
Sant’Antimo è il canto del cigno dei grandi monasteri medievali italiani, ispirati alle regole dell’ordine benedettino. Nessuno degli altri monasteri della Toscana raggiunge gli effetti di omogeneità e bellezza di questa costruzione. Da alcuni anni, questo monastero è tornato a vivere con una nuova comunità di Canonici Regolari che ne hanno rivitalizzato la tradizione e la storia di accoglienza.
di Daniele Rocchetti
Ci sono pietre e luoghi che raccontano, più di altri, il desiderio di infinito dell’uomo. L’abbazia di Sant’Antimo, posta in aperta campagna nella splendida e solitaria Valle Starcia a fianco dell’antica Via Francigena (a Castelnuovo dell’Abate, nel territorio di Montalcino) è una di queste.
La leggenda vuole che a fondare questa abbazia – uno dei monumenti italiani più belli di stile romanico-cistercense – sia stato Carlo Magno nel lontano 781. Di ritorno da Roma, corse il rischio di essere colpito, come molti suoi soldati, dall’epidemia di peste che imperversava nelle zone situate alle pendici del monte Amiata. Il re dei franchi fece un voto chiedendo grazia per se stesso e per la sua gente perché il flagello cessasse. Ricevutala, fondò l’abbazia. Sant’Antimo sarebbe, quindi, un ex voto imperiale.
Con certezza si sa che nel IV-V secolo Castelnuovo dell’Abate era un importante centro abitato, dotato di una pieve, poi scomparsa. Il monastero di Sant’Antimo comunque esisteva nell’anno 814 come testimonia un diploma di Ludovico il Pio – unico figlio superstite di Carlo Magno – che arricchisce l’Abbazia di doni e privilegi.
Ma già pochi anni dopo, l’abbazia attraversa difficoltà finanziarie, al punto che nell’877 Carlo il Calvo l’affida al vescovo di Arezzo, con l’obbligo di mantenervi a proprie spese 40 monaci. Verso il Mille l’abbazia era diventata un potentato territoriale e i suoi possedimenti, sparsi fra Lucca e Orbetello, contavano nove monasteri, quarantasei chiese e diciassette fra castelli, mulini e poderi.
Il 1118 segna l’apogeo di Sant’Antimo. Il conte Bernardo degli Ardengheschi cede il suo intero patrimonio in beni mobili e immobili «in toto regno Italico et in tota marca Tuscie» a Ildebrando, figlio di Rustico, affinché lo trasferisca all’abbazia.
La testimonianza di questa eccezionale donazione venne incisa sui gradini dell’altare come “carta lapidaria” a perenne ricordo dell’evento ed è ancora oggi visibile. L’abate Guidone (+1128) che ricevette la donazione diede subito avvio al grande cantiere per la costruzione della nuova chiesa. Impresa non facile e che richiese un impegno costruttivo al di sopra delle possibilità economiche dei monaci benedettini visto che non furono ultimati nè la facciata, nè parte dei locali di servizio dei frati.
Il risultato fu, comunque, eccellente: una navata centrale slanciata e luminosa, dotata di tribune, arricchita di splendide sculture. Sul lato rivolto a mezzogiorno si estendeva il resto del vasto complesso, con il chiostro, la sala capitolare, lo scriptorium e gli altri ambienti per la vita monastica.
Il periodo di massimo splendore durò fino alla occupazione di Montalcino da parte dei senesi che obbligarono l’abbazia a cedere a Siena la quarta parte del territorio di Montalcino. Era il 12 giugno 1212. L’Abbazia iniziò il suo lento declino. Il periodo di decadenza, che seguì, portò alla sostituzione dei Benedettini con i Guglielmiti nel 1291.
Nel 1462 l’Abbazia fu soppressa da Papa Piccolomini (Pio II) e incorporata alla diocesi di Montalcino. Dopo il passaggio dell’Abbazia alle proprietà dello Stato nel 1867, si aprì – per circa trent’anni – un lungo periodo di restauri che salvarono l’intero edificio.
Un artista pellegrino
L’incanto è totale e l’armonia con cui le geometrie architettoniche dell’abbazia si integrano con il paesaggio supera ogni paragone. La facciata, incompiuta, presenta un portale, probabile soluzione di ripiego ad un progetto che ne prevedeva due, sormontato da un’architrave databile alla prima metà del XII secolo e capitelli, fregi e ghiere di poco posteriori.
L’elemento che più di ogni altro conferisce a questa chiesa un’impronta francese è lo schema basilicale con deambulatorio a cappelle radiali, unico in Toscana e tra i pochissimi presenti in Italia.
Al mattino, il sole gioca con la pietra che nel deambulatorio è la più preziosa tra tutte quelle utilizzate per la chiesa: alabastro e travertino, con cui sono realizzati capitelli e colonne. Lunga 44 metri, la chiesa è sorvegliata all’ingresso da due leoni stilofori, destinati probabilmente al portale esterno, databili al XII secolo e attribuiti al “maestro di Cabestany” come lo stupendo capitello con le scene di Daniele nella fossa dei leoni.
Chi sia questo Maestro scultore del XII secolo – straordinario – è un mistero ancora oggi. Di lui non si conosce il nome e soltanto l’originalità del suo stile ha permesso agli studiosi di identificare le sue opere. Le troviamo qui a Sant’Antimo come in Catalogna, in Linguadoca e in Navarra, come se anch’egli avesse – otto secoli or sono – seguito i grandi cammini di allora: quelli che conducevano i pellegrini verso Roma o verso Santiago di Compostela.
Sul lato esterno sinistro si eleva l’imponente campanile alto circa 30 metri. Diviso in quattro ordini, decorato da lesene, con aperture monofore e bifore, è di stile lombardo con una nota pisana per le colonne agli angoli della base. Il campanile ha una copertura a terrazza, su cui sono collocate due campane, una delle quali porta incisi il nome dell’abate Ugo e la data 1219.
L’abside della grande chiesa, sintesi di potenza e di slancio, culmina con una deliziosa bifora, l’unica che la illumina interamente.
Un filo riannodato
A permettere che le pietre potessero di nuovo far risuonare la passione per Dio è, dal 1992, una comunità di Canonici Regolari.
«Dopo 530 anni di silenzio – raccontano di sé – il filo spezzato del tempo è finalmente riannodato: la nostra piccola comunità si è stabilita a Sant’Antimo, erede di una storia e di una tradizione più che millenaria. Le pietre della chiesa che ci sovrasta hanno quasi otto secoli; vi risuonano ancora i passi e le orazioni dei pellegrini, il canto dei monaci, lo strepito dei carri e dei cavalli. Sembra che qui il tempo si sia fermato: i turisti hanno rimpiazzato i pellegrini, ai cavalli si sono sostituiti i motori, ma noi canonici cantiamo le medesime melodie gregoriane, le campane rintoccano sempre... qui a Sant’Antimo è ancora e sempre il giorno luminoso della Resurrezione».
Sono stato, per qualche giorno, ospite della comunità che mi ha accolto con generosità. Ho incontrato per primo fra Pierino, un bresciano di grande disponibilità. Pierino è arrivato in comunità nel 2000 dopo essere stato ordinato prete nella sua Diocesi e aver fatto il curato a Zanano, in Val Trompia, per sette anni. Ora è responsabile dell’accoglienza e gestisce la Foresteria.
Da buon bresciano è sempre attivo e dinamico, pronto alla battuta, capace di fare, con naturalezza, più cose insieme. Pierino, per il momento, è l’unico italiano della comunità: cinque fratelli sono francesi, uno viene dal Galles.
Gli chiedo: cosa spinge un prete diocesano a scegliere di diventare Canonico regolare?
«I canonici regolari sono una comunità di preti che ti aiuta a vivere la dimensione sacerdotale in modo pieno. Quali sono le caratteristiche? Te le posso riassumere in tre scelte di fondo. La prima è la vita comune secondo il modello degli Apostoli. Nel vangelo Gesù ci chiede di lasciare tutto per seguirlo.
«L’esperienza dei Canonici Regolari inizia con sant’Agostino. Vescovo di Ippona, a cavallo tra il quarto e il quinto secolo, che scrive una regola per i suoi preti. Un breve testo che non entra nei dettagli ma che è attento agli elementi essenziali della vita comune come strumento ideale per vivere la povertà richiesta da Cristo. Una povertà basata sulla condivisione, nella semplicità e nella gioia, sia dei beni materiali ma soprattutto della Parola di Dio, della preghiera liturgica, del Pane eucaristico. Vita in comunione con la Chiesa locale: come i primi Canonici Regolari abbiamo a cuore l’unità della chiesa. Siamo quindi a disposizione dei vescovi della chiesa di Cristo, pur mantenendo la nostra specificità canonicale. Cerchiamo di vivere la comunione ecclesiale lavorando con i sacerdoti della diocesi, come ci viene richiesto dal Concilio Vaticano II.
«Insieme alla vita comune di preghiera, l’altro aspetto fondamentale che caratterizza tutte le comunità di Canonici Regolari è il servizio al popolo di Dio. Rispondiamo quindi in questo tempo e in questo luogo, con l’inestinguibile luce della Parola del Vangelo, al bisogno di assoluto, alla ricerca di verità che sono nell’intimo di ogni uomo».
Dici che una vita comune aiuta a vivere meglio la vita sacerdotale…
«Certamente! La vita comune nutre la vita sacerdotale. Questa sarà la via prossima della Chiesa. Se ci pensi, sono molti i modi che tentano oggi di riproporre la vita comune tra i sacerdoti. Non è un caso che, in questi anni, in molte diocesi si sia ripreso a parlare di “unità pastorali”».
È stato naturale il passaggio da prete diocesano a canonico regolare?
«Beh, naturalmente ho fatto un po’ di fatica. Prima ero abituato a gestirmi da solo, a programmare e a realizzare quello che ritenevo bene; invece qui bisogna vedere se il mio bene corrisponde un po’ anche al bene della comunità. Ma del resto questo succede in ogni famiglia…».
Quali sono i cardini della spiritualità della vostra regola?
«La regola comincia così: “Il motivo per cui voi siete riuniti insieme è questo: essere uno, protesi verso Dio”. Questo è il senso della vita comune: cercare l’amicizia profonda, spirituale, come nutrimento per camminare insieme. Dalla regola emerge la convinzione che è importante imparare a volersi bene per saperlo poi testimoniare nella vita pastorale. Agostino punta molto sulla dimensione della preghiera insieme, ed anche su questo scrive: “Meditate nel cuore ciò che dite con la bocca”. Nella preghiera è importante l’apertura del cuore, il desiderio di aprirsi a Dio ogni giorno di più per accogliere quello che Lui vuole fare con ciascuno di noi».
La bellezza conduce a Dio
Priore e fondatore di questa singolare comunità è fra Andrea Forest, un francese dallo sguardo mite ma penetrante, arrivato a Sant’Antimo nel 1992, su suggerimento del Vescovo di Siena, dopo anni di ricerca, prima tra i premostratensi dell’abbazia di Monday, in Normandia, e poi in terra toscana, alla scoperta di un luogo dove poter avviare una vita comune con altri sacerdoti.
Lei è il fondatore di questa comunità…
«Io non ho fatto altro che prendere una tradizione già esistente. Non ho inventato niente: ho ereditato tutto da una tradizione molto antica, ho cercato di cogliere l’essenziale e di adattarlo dentro il nostro tempo».
Che rapporto c’è tra la vita spirituale e la bellezza?
«Credo che vi sia una comunicazione molto profonda. Il padre Congar ringraziava la Chiesa perché gli aveva insegnato ad ordinare la sua vita e ad entrare nella bellezza di Dio attraverso la liturgia e la teologia. La bellezza è sempre una via privilegiata per scoprire Dio. È il richiamo posto a conclusione della nostra Regola: “Il Signore vi dia di osservare tutto ciò con amore, come innamorati della bellezza spirituale e diffondendo con la virtù della vostra vita comune il buon profumo di Cristo, non come servi, ma come uomini liberi sotto la grazia”».
«L’opera di Dio è fondamentalmente un’armonia. Quando noi distruggiamo quest’armonia perdiamo anche la strada per Dio. Pensi alla creazione! Quando ho un po’ di tempo libero, mi piace leggere qualche libro sulle ricerche e sulle scoperte scientifiche. Recentemente ho letto un testo di un australiano sul mistero della vita: si ricava un’impressione di bellezza, di perfezione, di armonia. Anche nel mistero di Cristo, nella liturgia che celebriamo a Pasqua, c’è una luminosità, una armonia, un significato che, veramente, rimette tutte le cose a posto. E questa è la bellezza!».
Ad una chiesa come la nostra, segnata dalla presenza ma anche dall’affanno, cosa può dire un’esperienza come la vostra?
«Non lo so. Se noi siamo fedeli diamo una testimonianza di un sacerdozio che è anzitutto uno spazio di contemplazione e di preghiera, di ascolto e di inserimento nel mistero di Cristo. Lo scrive San Paolo, “Noi siamo dispensatori del mistero di Dio”. Ma se non viviamo del mistero di Dio, siamo dispensatori di niente, rischiamo di girare a vuoto e di parlarci addosso. A noi semplicemente è chiesto di vivere due testimonianze fondamentali: la bellezza di Dio nella liturgia e nella vita fraterna. Il resto si fa come si può, secondo le domande e le circostanze della storia.
«La stessa attività pastorale ha solo questo senso: annunciare a tutti che Cristo è risorto. Si può dire che dalla contemplazione del volto di Cristo scaturisce l’urgenza di annunciarlo a tutte le creature. Per questo, la comunità si ritrova in chiesa sette volte al giorno. Anche di notte…».
Anticipo di Resurrezione
È una domenica mattina, chiara di sole. La chiesa si riempie all’inverosimile di persone che partecipano con intensità alla liturgia cantata in gregoriano.
Qualcuno ha chiamato il gregoriano “la Bibbia in musica” perché si propone di guidare chi lo canta o lo ascolta all’essenziale, cioè a Dio, tramite la contemplazione. Credo che molti di coloro che sono in chiesa facciano fatica a vivere tempi e modi del gregoriano… Eppure seguono con attenzione, affascinati da un pugno d’ uomini che, con semplicità, mostrano il primato di Dio dentro le pieghe della loro vita.
Alla domanda «Quale bellezza salverà il mondo?», il cardinal Martini rispondeva, in una sua lettera pastorale, che la bellezza che salverà il mondo è «l’amore che condivide il dolore».
A Sant’Antimo, le pietre vive dell’abbazia dimostrano che questo è possibile ed è anticipo di Resurrezione.
Daniele Rocchetti
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